Time4TheOther
Piante rare - Cap.7

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La penombra guadagnava a poco a poco lo spazio intorno.

La cena era già andata, consumata nell’orario impossibile dell’ospedale.

Era strano. Nella sua solitudine non aveva particolari stimoli attorno, eppure si sentiva pieno, vero… senza più bisogno di attendere.

La sua vita, in quell’universo minimalista di una camera d’ospedale, sembrava bastare a se stessa.

La sua vita quotidiana prima dell’incidente, sia pur sempre piena di impegni e preoccupazioni, gli appariva assolutamente vuota ed inutile…comunque molto più insulsa di quei lunghi silenzi.

Era l’ora in cui i familiari dovevano lasciare i ricoverati. Il brusio lasciva trasparire situazioni contrastanti. Lucio percepiva chiaramente le emozioni attorno: c’era chi sembrava sotto sotto sollevato di poter finalmente andare via e tornare alla sua casa, chi, avendo fatto del proprio meglio per incoraggiare un ammalato, era pieno di vitalità e il suo saluto era quasi un “grazie” per aver potuto sperimentare quella gioia, chi portava dentro di sé la tristezza della malattia di una persona cara, chi era lì perché nessun familiare poteva andare ed era lui a dover prendersi cura di un estraneo…

Ora gli ammalati tornavano alla solita routine, a dover guardare in faccia da soli la loro realtà, a rimettere in moto quel sottile filo fatto di silenziosa solidarietà che legava i ricoverati gli uni con gli altri…

Lucio era un caso a parte. Nonostante avesse iniziato a sentire il valore di quell’umanità che, a vario titolo, lo circondava, non riusciva ancora a mischiarsi agli altri. Preferiva star solo.

Sentiva la sua solitudine, la sua differenza, la mancanza di una persona cara che venisse a trovarlo…eppure non si sentiva in diritto di lamentarsi; sapeva che, in definitiva, era una scelta di vita... Ora aveva capito che era una scelta inutile, sbagliata e che, in definitiva, la sua libertà era – più che altro – la libertà di star solo.

Erano le nove e mezza. La televisione gracidava senza tregua le sue isterie, e tanti vivevano il rumore come l’unica ninna nanna possibile.

 

Lucio guardava fuori. Tra pochi giorni sarebbe uscito. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe continuato la sua vita di sempre? Avrebbe fatto tesoro di quell’esperienza?

Chi sarebbe stato a dargli il bentornato nella vita quotidiana? I suoi colleghi? Qualche amico che si sarebbe accorto, casualmente, che da due settimane non si faceva più sentire?

Eppure era felice. Non tanto di tornare. Quanto di aver visto al di là di quel ritmo frenetico, umanamente accecante del suo quotidiano.

Si sentiva pulito. Pulito dalle illusioni. Pulito da quel dito di polvere che stava soffocando le cose più importanti della sua vita.

Avrebbe voluto guardare allo specchio una faccia in cui riconoscersi. Tutto qua.

Alzarsi al mattino e non dover combattere con quel senso di nausea e di inutilità; non dover agghindarsi per rapporti sociali fatti di menzogne e di formalismi; non dover fingere di stare sempre bene; non dover immaginarsi una terra ed un sole…ma afferrare la volo quella terra che calpestava sotto i piedi e quel sole che giocava con il cielo proprio quando avesse alzato il capo e guardato in su.

 

Per adesso poteva ancora godersi la quiete dell’ospedale, quell’aria pulita e vera, nonostante (o grazie) il dolore che non ammette bugie, sotterfugi, finzioni, parate.

 

I ricoverati, persone diverse ma accomunate da un destino comune, erano ora tutti nella stessa barca… le differenze sociali che, anche lì, si manifestavano con qualche beneficio in più, erano comunque irrilevanti. Era rilevante quel senso di forza (o di mancanza di forza) che ognuno di loro doveva coltivare sentro di sé.