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Ipotesi di miglioramento Capitolo VIII

Notte (prima)

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Oramai la luce del sole era un ricordo, sommerso dalla vilenza dei lampioni, dell’elettricità nervosa che si distribuiva arrogante nelle lampadine, nelle tv, nella musica che invadeva la sua casa dalle case attorno.

 

La notte in genere fagocitava le speranze del giorno con la promessa sempre disattesa del domani.

 

Questo Consuelo la sapeva bene. E sapeva che non poteva/voleva/doveva lasciarsi fregare.

 

“Oggi”

 

Il domani avrebbe accolto con forza quello che avrebbe fatto in quella giornata ma non avrebbe, di per sé, potuto fare nulla senza azioni compiute.

 

Consuelo lo capiva, lo sentiva, lo voleva. Ma era terribilmente faticoso. Era quasi impossibile.

Ma quel “quasi” era la sua ultima possibilità. A quel “quasi” avrebbe agganciato ogni sforzo.

 

Si stese piano sul letto. Aspettò Rodolfo. Era vestita. Non avrebbe dormito e non si sarebbe infilato il pigiama senza prima aver risolto. Era una specie di rito. Il pigiama era un segno di interpunzione. Era il punto. E il punto si mette quando la frase è finita. E la frase che Consuelo voleva sentire doveva ancora essere pronunciata.

Questa era la Consuelo che aveva deciso. Ma la Consuelo che agiva nella stragrande maggioranza dei suoi giorni era di rado così. Aveva un po’ paura di quella parte così diversa, così coraggiosa, così irripetibile. Ma aveva anche una vera tenerezza e amore per la sua vita. Non l’avrebbe più messa tra parentesi, l’avrebbe vista, guardata, incoraggiata, educata, nutrita ma mai più abbandonata, lasciata girovagare in un limbo indefinito, maltrattata, svalorizzata.

 

Rodolfo la vide. La conosceva bene e anche quella posizione, quell’ora, quella postura erano inequivocabili: Consuelo aveva bisogno di parlare, di rivelarsi, di ascoltare, di andare al di là.

Rodolfo, o meglio, la sua natura pavida, aveva paura di quei momenti. Spesso quei momenti erano stati il preludio di dialoghi dolorosi, di novità inattese, di mostri che chiedevano di essere guardati e affrontati.

Ma Rodolfo, in cuor suo, sapeva anche che era meglio entrare con lei in quell’abbisso, piuttosto che aspettare che il vortice del non detto strappasse violentemente il timone della vita dalle mani dei due. Aveva fiducia in Consuelo. Specie in quella parte così sobria e austera della compagna.

Specie in quella saggezza coraggiosa che non dimenticava mai la compassione, il contatto, il respiro di lui.

L’avrebbe ascoltata. Seriamente. Avrebbe addomesticato il coniglio della sua paura e tenuto saldamente al guinzaglio.

Avrebbe guardato attraverso gli occhi di Consuelo. Avrebbe aggiunto le sfumature della sua sensibilità alla sinfonia delle sue riflessioni. Anche se, fino a un momento prima, tutta quella positività era ancora oscurata dalla stanchezza dalla disillusione, dal bisogno ansioso di certezze più che di verità. Eppure si sdraiò accanto a lei. Lei aspettò paziente che le sue orecchie fossero aperte, che il suo respiro avesse lasciato spazio alla calma della notte, che l’elettricità del suo corpo si fosse assestata.

E fu proprio la magia di quell’attesa che lasciò sprigionare liberamente la disponibilità di Rodolfo.

Il tempo c’era, era sufficiente, né troppo né poco. E il tempo non avrebbe offeso nessuno, non avrebbe cavalcato i loro ritmi, non avrebbe messo fretta a nessuno, nemmeno alla promessa di Consuelo. Anche il tempo era stato addomesticato, docile compagno del loro momento.

 

Forse la risposta era tutta lì. In quel rispetto invisibile. In quell’attesa senza ansia.

In quella fiducia indistruttibile nella fine della palude, in quell’attenta considerazione della vita dell’altro e della propria. In quella semplice ricerca del momento che ora era lì, aperto alle loro scelte, alle loro parole, ai loro bisogni.

Rodolfo lasciava trapelare a tratti qualche sospiro.

Consuelo ascoltava. Era il modo per ascoltare anche se stessa.

La strada continuava idifferente la sua vita e lasciava sfuggire qualche urlo improvviso.

La strada parlava con le ruote delle macchine, con gli stereo a manetta, con le grida dei ragazzi sbronzati.

Consuelo e Rodolfo avrebbero parlato con il suono delle loro voci. E tutti e due stavano cercando il ritmo, l’intonazione, la tonalità, il colore giusto, per dar forma ai loro pensieri.

Rodolfo aveva avuto una giornata pesante e non aveva avuto certo il tempo di pensare.

Consuelo aveva pensato tanto. E aveva pensato anche un pochino più in là dei sentimenti negativi che spesso covavano nascosti nelle sue solite riflessioni. Aveva volto alto e, da quell’altezza, non c’era più tanta differenza tra lei e lui, tra un presunto carnefice e una presunta vittima, tra il dolore suo e quello di lui, tra le sue insufficienze e le  debolezze del partner.

Tutto era lì, in attesa di essere ulteriormente elaborato, raffinato, cambiato, arricchito, condiviso.

E Rodolfo mise in cantina la stanchezza. Gli era possibile, specie ora che sentiva la leggerezza e la profondità della mente di Consuelo.

Questo prima, prima delle parole.

 

“Come stai?” chiese Consuelo.

 

“Stanco, ma non troppo…” Rodolfo accompagnò con un sorriso di curiosità le parole e lo sguardò che si intrecciava a quello di lei.

 

“Sai, ho pensato tanto oggi…”

 

“…”

anche Rodolfo aveva sentito qualcosa tra le cose che aveva fatto, un vento nuovo che stava per  cambiare la direzione di qualche bandiera.

 

“Io sono stanca. Non so cosa debbo fare ma so che devo assolutamente cambiare qualcosa.

Ho bisogno di una ltro punto di vista. Di un’altra speranza, di una nuova prospettiva. Ho paura di invecchiare e di scoprire che la mia vita era assetata di tante cose che non ho mai fatto…”

 

Rodolfo la acoltava e, stranamente, riusciva a non interporre i suoi pensieri a quelli di lei.

Non gli riusciva spesso.

Ed era comunque libero di condividere alcune sensazioni. Di vedere nelle parole di Consuelo una parte della propria vita. E di lasciare ancora che le parole di lei si esprimessero piene, senza interferenze.

Com’è strana la mente. In alcuni momenti poteva essere assolutamente ampia da contenere tutto senza perdere se stessa.

 

“Di chi è la colpa?” continuò Consuelo

“Non mi interessa più di tanto. Ora mi sembra che sia futile come cercare l’origine del vento e, intanto, soffrire di freddo nel mezzo di una bufera. Ho bisogno ora di uscire dal vortice. Ho bisogno di sperimentare, di provare, di sbagliare, di cadere, di rialzarmi, di ridere, di ballare, di piangere, di rischiare. Di certo non ho bisogno di situazioni particolari, di persone speciali, di locali trendy. O, certamente, non solo di quelli.”

 

“Ti sei stancata di me?” proruppe Rodolfo. Gli uscì spontanea quella domanda e, probabilmente, inopportuna. Se non altro perché anche lui aveva capito benissimo che il problema non era quello.

 

“Forse” a domanda cretina risposta cretina. Consuelo pensò subito all’inutilità di quella risposta.

Ma, forse, era solo il grimaldello che serviva ad aprire una porta; dietro avrebbe scoperto qualcos’altro.

 

Il buio si accoppiò col silenzio. Le luci della strada coloravano il nero e i loro respiri si assorbivano l’un altro. Le parole. Gabbie infernali. Angeli-demoni. Esseri incontrollabili. Bestie selvagge sempre pronte a sfuggire al giogo delle vere intenzioni

 

“O forse no. Anche, certamente anche il nostro rapporto ha bisogno di qualcosa di più. Ma solo dopo. Prima c’è qualcos’altro che devo capire. E lo voglio capire oggi. Si oggi. Proprio oggi. Non voglio che passi una sola giornata in più senza questa risposta.” Era nello stile di Consuelo.

Rodolfo aveva capito, aveva sentito, aveva accarezzato con le sue lunghe orecchie il cuore di lei.

 

“Scusa…” Consuelò si alzò, rapida ma senza fretta, in armonia con il suo desiderio.

Rodolfo la guardò allontanarsi. Era un semplice spettatore di quello che lei avrebbe elaborato?

No. Conosceva lei e conosceva se stesso abbastanza da sapere che, anche se in maniera invisibile, erano in due anche da soli, anche facendo da soli qualcosa che forse avrebbero dovuto fare in due.

Anche nell’oscurità e nell’impossibilità di ascoltare di più di quello che le parole lasciavano trapelare.

Era quello il gioiello della fiducia e, nonostante gli ostacoli e i problemi, era rimasto ancora integro, duro e resistente come la punta di un diamante.

 

Rodolfo rimase sdraiato a guardare quel pezzo di cielo ancora libero dall’invadenza dei palazzi intorno.

Rimase in ascolto dei suoi pensieri.

Era sorpreso: non aveva pensieri.

Le sue orecchie potevano solo ascoltare il suono della città.

Era quello l’oracolo che Rodolfo stava ascoltando per scoprire la sua verità.

Anche se ancora non lo sapeva, per adesso era solo un rumore.