Time4TheOther

Ipotesi di miglioramento Capitolo II

Prima mattinata

House outline

 

 

Cos’era che aveva sentito diverso dai soliti risvegli?

Cosa di diverso avrebbe fatto per rendere concreto il suo desiderio di risposte?

Il cielo volava alto sui suoi pensieri. Nuvole zero.

Prospettive…?

Il riflesso della luce sulla tazzina rendeva inutile ogni progettualità.

Aveva già tentato. Aveva già sofferto. Aveva già…

Eppure sentiva che le sfuggiva l’essenziale. Il punto cruciale.

Il telefono dormiva ancora.

Aspettava una telefonata?

No.

Eppure, come spesso le accadeva in quei momenti, cercava dal trillo di quell’oggetto un input.

Qualcosa/qualcuno che le avesse aperto la strada.

Quella mattina sarebbe stato diverso.

Lo squillo lo avrebbe fatto lei, avrebbe lei svegliato il sonno della sua vita.

Urla, litigi, sforzo, ancora urla e poi i bambini era lavati e vestiti.

Pronti.

Uscirono, nel sole torrido che non concedeva tregua ai sopravvissuti dell’agosto milanese.

Avrebbe deciso lei.

Aveva paura delle sue decisioni.

Aveva paura che – alla fine – quel pizzico di gioia fosse svanita travolta dal vortice delle cose.

Ma no. Quella mattina no. Era troppo arrabbiata col mondo per farsi fregare.

Avrebbe deciso lei. Avrebbe affrontato il turbine del vento contrario. Era inutile cercare la pace.

L’avrebbe trovata solo attraversando la tempesta.

E la tempesta – la microtempesta dei bambini – non tardò a ululare la propria furia.

"No, ai giardini non ci voglio andare"

"Io si"

"Perché fai sempre quello che ti dice Luca?"

"Sei tu che dici sempre di no"

"Voglio andare a casa…."

"Mamma, ai giardini posso portare la bicicletta?"

"Ho sete"

"BASTA! Andiamo ai giardini. Non voglio sentire più niente."

In quella sua determinazione c’era un pizzico di soddisfazione.

Aveva deciso. Aveva capito che era inutile cercare un accordo. Aveva capito che, dietro quella durezza c’era l’amore. C’era la voglia di uscire da quei riflessi continui delle mura di casa, da quel gioco di specchi che non poteva rimandare se non un continuo e spiazzante immaginare.

Che dietro a quel monitor – c’era sempre un monitor acceso in casa, monitor o tv - non c’era nulla. Se non l’illusione.

Anche ai giardini c’era qualcosa che assomigliava al nulla. Ma almeno era palpabile.

E, guardando bene, c’erano anche altre persone. Poche ma c’erano.

Qulle persone che, nei mesi invernali, sembravano solo aver voglia di scappare lontano, ora sembravano assaporare il gusto di conoscersi, di rompere il guscio protettivo della privacy che, in realtà, nasconde solo la paura dell’altro.

Un vecchio. Solo? Solo ma, almeno all’apparenza, soddisfatto.

Stava lì a godersi quel sole che tutti fuggivano cercando un po’ d’ombra.

E sorrideva con gli occhi socchiusi, quasi stesse ascoltando una musica che stava suonando solo per lui.

Consuelo ebbe un attimo di vergogna.

Si vergognava dei suoi quarant’anni sofferenti, guardando quanta gioia potesse tirar fuori un vecchio solo.

Eppure la sofferenza è così. E’ come la giustizia. E’ come la vita.

Non guarda in faccia a nessuno.

Tutti sono esposti alle sue bizze e l’altra faccia, la gioia, è allo stesso modo imparziale: non ha bisogno di gioventù, di soldi, di amore per manifestare la sua dolcezza.

Consuelo lo sentiva. Lo sentiva nell’espressione di quel vecchio….

"Mamma….mamma…MAMMAAAA"

"Che c’è?"

Roberta stava giocando con le foglie. Voleva solo essere guardata, considerata, valorizzata.

Ed era quello il momento. Non poteva essere un altro. E Consuelo doveva e voleva non deluderla.

Anche se le costava. Le costava abbandonare le sue riflessioni.

Ma era quello il prezzo che i bambini chiedevano alla loro mamma.

E, a volte, sembrava davvero gravoso. Come in quel momento.

Il sole illuminava con giochi netti i capelli di Roberta – luce ed ombra non avevano mezzi toni.

Sembrava un’allucinazione.

E Consuelo era lì, rapita dai colori dei capelli della figlia. Intenta ad ammirare un tesoro sconosciuto, solo ora venuto alla luce.

"Mamma, guarda. Questo è un pupazzo.Ti piace?"

Il mondo fuori e quello dentro si rincorrevano freneticamente.

"E’ un tutt’uno…" pensò Consuelo.

Il pupazzo rimandava poeticamente al sorriso del vecchio e la bocca della bambina rifletteva il sole intorno.

Consuelo era lì. Confusa ma felice.

In un raggio di sole aveva visto tutto.

E tutto era lì, sotto i suoi occhi. Non c’era bisogno di cercare altrove.

"Cattiva mamma…" se lo ripeteva spesso.

Del resto era difficile seguire i bambini e il suo cuore vagabondo, le sue fantasie, così terribilmente inutili e indispensabili.

Ma, per fortuna, la sua ironia rendeva leggera come una pacca sulla spalla quella frase in apparenza così terribile.

Consuelo non aveva mai creduto in maniera così rigida alla perfezione della mamma. Manteneva un certo distacco anche da quella responsabilità così ineludibile.

"Del resto una donna che non riesce a godere del sommesso mormorare del sole tra le foglie, non è proprio una donna. Tantomeno una mamma."

E con riflessioni di questo tenore riusciva ad esorcizzare la paura, mai completamente risolta, di non essere la mamma ideale.

I bambini correvano. Correvano sopra i suoi pensieri, sopra le sue paure, sopra l’arroganza delle macchine che fuggivano lì, a pochi metri del cancello dei giardini.

I bambini rincorrevano il sole.

Rincorrevano l’attenzione della mamma.

Poco ne sapevano delle elucubrazioni di Consuelo. Volevano solamente e semplicemente più attenzioni. Come tutti. Come è naturale che sia. La sola cosa innaturale era il senso di inadeguatezza di Consuelo.

E i suoi giochi mentali non erano più individuabili come causa o come effetto di quella presunta inadeguatezza: fuggiva dalle sue responsabilità attraverso un uso smodato della fantasia, si rintanava nella fantasia quando verificava la propria inadeguatezza, o, semplicemente, Consuelo, la sua fantasia, i suoi bambini potevano convivere in armonia e qualcos’altro inceppava il meccanismo?

"Mamma….mammaaaa"

Ripose i suoi pensieri in un angolino, con la stessa naturalezza con cui un "mamma ideale" avrebbe risposto il suo lavoro a maglia.

"Dimmi"

"Mamma ho fame…"

"Tra poco andiamo a casa"

"Ma io ho fame adesso.."

"Allora vieni che andiamo subito a casa"

"NO, voglio il gelato"

"Vieni subito qui. Non mi lascio prendere in giro da te!"

"Ma mamma, la mia amichetta lo sta mangiando…"

"Vieni..chiama anche tuo fratello che andiamo"

Il sole li accompagnò silenzioso per la strada bianca.

Erano teneri. Una famigliola felice.

Ma era davvero così?

Se Consuelo avesse dovuto rispondere a questa semplice domanda sarebbe rimasta immobile, come un animale alla ricerca di un odore nuovo. Avrebbe guardato il cielo e avrebbe detto: "Boh".

Ma Consuelo, ora, era semplicemente impegnata a portare i bambini a casa.

A quella domanda avrebbe dovuto rispondere prima o poi.

E per rispondere a quella domanda non avrebbe potuto eludere quella preliminare:

"Consuelo, sei felice?"

Ma andiamo con ordine.

Il tempo sarebbe arrivato.

Sarebbe arrivato anche per lei.

Ma non bisognava portare fretta.

Le disgrazie e le fortune vengono sempre quando nessuno le aspetta.

E così le risposte.

Incredibili e inevitabili corollari per una strada sicura.

Un po’ meno calda di quella che ora i tre stavano percorrendo per arrivare a casa.

Almeno questo Consuelo l’avrebbe preteso da proprio destino.