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Le contrade del mondo

di Alarico Bernardi

 

Ivan finì di allacciare la cinghia dello zaino, mentre Wolf lo fissava incuriosito. Bevve d’un fiato il caffè rimasto nella tazzina, accarezzando frettolosamente la testa del cane.

Uscì di casa, rimandandosi l’uscio alle spalle. Il desiderio di allontanarsi da ogni luogo civilizzato gli metteva in corpo un’energia straordinaria. Le convenzioni, i compromessi, la falsità si disgregavano sotto i raggi obliqui del sole, indossando le vesti dell’inconsistenza.

Gli strali luminosi dell’alba dardeggiavano il pelo di Wolf, mettendo in risalto il bianco immacolato del suo mantello.

Una strada sterrata zigzagava tra i campi, trasformandosi a tratti in un sentiero appena visibile, punteggiato da minuscoli fiori policromi. Il cane, un incrocio tra Pastore Tedesco ed Asky Siberiano, si attardava ad annusare il terreno, non perdendo mai di vista il padrone. Si lanciava, poi, all’inseguimento dell’uomo e, raggiuntolo, faceva delle giravolte intorno a quella figura tanto amata, quasi a voler ribadire la sua incondizionata fedeltà.

I monti lontani si ergevano a maestosi custodi dell’orizzonte, promettendo avventure strabilianti ai due compagni di viaggio. Poco più avanti, le acque chiare d’un lago brillavano al sole di mezzogiorno, riverberandosi sui tronchi di querce cresciute nelle immediate vicinanze.

Quel singolare baluginio ammantava le ghiande cadute a terra d’un velo ramato, simile, per colore, a sangue rappreso.

Si fermarono per mettere qualcosa sotto ai denti, riparati dall’ombra degli alberi.

Ivan tirò fuori un pezzo di pane e della carne essiccata, sedendosi, subito dopo, sul tappeto erboso che lo circondava. In quel mentre, le orecchie dritte ed appuntite dell’amico a quattro zampe furono percorse da un lieve tremore, causato dalla morbosa voracità che lo soggiogava.

L’uomo lanciava grossi bocconi di carne al suo indirizzo, sorridendo nell’osservare l’agilità e la prontezza dell’animale.

Dopo essersi rifocillato, Ivan appoggiò il mento sul palmo aperto della mano destra, lasciando che la mente inseguisse i pensieri che cominciavano ad affollarla.

Gli occhi celesti fissavano un punto indistinto della pianura, come se volessero frugare oltre le nubi basse che offuscavano i contorni della vallata. La veduta spettacolare, fornita dalla natura, l’aveva completamente affascinato, generando dubbi, capaci di sconvolgere propositi pensati da anni.

Si rifiutava di ammettere che lui, proprio lui si ponesse domande sulla paternità di tanto splendore.

Una realtà amara e dolorosa, allora, riaffiorò prepotentemente dai recessi più nascosti della memoria per annientare quell’involontario idillio. L’anno trascorso insieme a Dalila ritornava a proporsi in un’impietosa sequenza, mostrando quei momenti in cui l’umiliazione sembrava essere uno dei mali minori della farsa che lei era solita definire “vera storia d’amore”.

Nulla è più riprovevole del prendersi gioco delle aspettative d’una persona, tenendola all’oscuro su altri propositi, diametralmente opposti a quanto finto ambiguamente di progettare insieme.

Lei aveva tirato dritto con fredda noncuranza, infischiandosene del male arrecato ad un uomo già provato dalla sofferenza e dalla vita, deluso nel profondo e lontano da qualsiasi pregiudizio.

Un malessere indefinibile aveva iniziato a pervaderlo, impedendogli di respirare normalmente e privandolo d’ogni energia.

Il bagliore che l’aveva temporaneamente illuminato svaniva in una nebbia d’amarezza, cedendo il passo alla disperazione. Nel frattempo, un improvviso e straziante mugolio di Wolf si levò nell’aria, richiamando l’attenzione d’Ivan.

Gli occhi di ghiaccio della bestia lo scrutavano, penetrandolo inesorabilmente, ricordandogli le parole di un monaco buddista, incontrato mentre attraversavano le steppe della Mongolia: “Non farti del male da solo. Lascia che gli altri te ne facciano. Non confidare a nessuno i tuoi desideri perché essi sono le tue debolezze. Quando potrai affermare con certezza che sei stato umiliato, che ti è stato fatto del male, soltanto allora scaccia chi ha dimostrato di non volere il tuo bene.

Non tornare sui tuoi passi, in quanto hai già dato al tuo prossimo la possibilità di ravvedersi.”.

Di chi avrebbe potuto fidarsi? Soltanto Wolf gli era rimasto vicino, ma sulla sua devozione non aveva mai dubitato. A questo punto, non restava altro che proseguire per il suo cammino, facendo più attenzione a quello che la gente gli avrebbe mostrato, piuttosto che a quanto sarebbe stato in grado di esternare. Si rivelava necessaria una radicale trasformazione del suo comportamento, evitando così l’incresciosa probabilità d’essere nuovamente menato per il naso.

Riagganciò la tracolla dello zaino e, chiamato vicino a sé Wolf, s’incamminò verso i monti lontani. Dopo un considerevole tratto di strada, il territorio prese a trasformarsi con una certa rapidità: larici secolari si ergevano tra i massi d’un paesaggio sempre più selvaggio e roccioso.

Le prime, rossastre luci del tramonto iniziavano a colorare il viso d’Ivan, quando dall’alto scorse una fattoria dal tetto in coppi bruniti, protetta da un basso muro perimetrale, percorso da una ragnatela irregolare di rampicanti. Oltre la casa, un viottolo scavato nella pietra portava ad un villaggio di cui si riuscivano a distinguere soltanto le prime abitazioni.

L’uomo scese a valle insieme al suo cane, rischiando più volte di cadere sulle pietre aguzze che segnavano il sentiero scosceso. Una volta giunto in prossimità della costruzione, rimase a pensare, arrestandosi nei pressi del cancello di ferro battuto.

Era stanco ed affamato, ma temeva di arrecare disturbo, chiedendo dove avrebbe potuto riposare e ristorarsi.

Un improvviso latrato di Wolf gli venne in aiuto, richiamando gli abitanti della casa che uscirono nel giardino, avvicinandolo con cordialità. Tentò di avere le informazioni necessarie a trascorrere la notte al riparo, ma non riuscì a rifiutare la schietta ospitalità che quella famiglia gli offriva, senza nemmeno conoscerlo. Mentre attraversava il frutteto, non poté fare a meno di notare un tronco di pero, adagiato sul bordo del vialetto che conduceva all’ingresso.

Non avrebbe fatto domande, sapendo bene quanta importanza ha un albero da frutta in una zona montuosa. Avrebbe atteso che gli fosse raccontato il motivo che li aveva costretti a tagliare l’albero, evitando accuratamente di dare un’immagine distorta di sé.

Dopo cena, si sedettero su poltrone foderate di velluto bordeaux, sorseggiando un’acquavite dal gusto schietto e deciso, nell’intento di approfondire quella fortuita conoscenza.

“ Sono certo di non cadere in errore, affermando di sapere a cosa sta pensando!” esclamò il capo famiglia, fissando con aria sorniona l’ospite. “ Non mi risponda… la prego! Mi lasci indovinare. Mentre entravamo a casa ha visto il tronco di quell’albero a terra e si è chiesto come mai sia stato sradicato, vero?” domandò con un pizzico di retorica.

Ivan comprese di non poter rimanere sul vago e decise di rispondere: “ Sì, non posso negarlo… l’ho pensato, ma credo che il motivo sia stato più che valido. Un pero di quelle dimensioni non si abbatte per capriccio! Sono curioso di conoscere i fatti che vi hanno portato a prendere una decisione tanto drastica!”.

Mimmo, dopo aver aspirato una lunga boccata di fumo dalla pipa, si accinse a raccontare: “ Questo è il secondo pero che ho dovuto tagliare… Il motivo è ricorrente: entrambi non hanno mai dato un solo frutto. Sono semplicemente cresciuti oltre misura, sottraendo nutrimento agli altri alberi.

Penso che qualche sostanza, nascosta nell’acqua o nel terreno, ne inibisca la fruttificazione.

Non riesco a trovare altre spiegazioni plausibili. E’ giusto, in ogni caso, che lei ascolti la storia della prima pianta. Ha dei risvolti che definirei significativi!”.

Wolf, intanto, si era accovacciato comodamente su un pagliericcio, contento di aver incontrato Bessie e Red, due Labrador, custodi della fattoria.

Ivan lo osservava dalla finestra, avvertendo una netta sensazione di calma interiore.

Volse lo sguardo verso il volto rassicurante del padrone di casa, pregandolo di continuare.

“ Come è noto il legno di alcuni alberi da frutta viene impiegato per la realizzazione d’immagini sacre, specialmente se si parla di pero o di ciliegio.

Durante il periodo precedente la scorsa Pasqua, l’anziano parroco venne a farci visita per impartire la benedizione in questa dimora e, notando il pero, accostato al bordo della via principale, non esitò a descriverci lo stato pietoso della statua di S. Antonio abate, esistente nella chiesa del Paese vicino. I tarli avevano ormai corroso l’interno della scultura e presto sarebbe dovuto ricorrere alla carità cristiana dei fedeli per acquistare il legname adatto e pagare un valido scultore, non sottraendo così agli allevatori il Santo protettore degli animali .

Come tirarsi indietro, come fingere di non aver compreso quella nemmeno tanto implicita richiesta? La nostra offerta per la festività imminente fu, di conseguenza, la donazione alla chiesa del pero abbattuto. Trascorsero alcune settimane e una nuova statua, lucente e solida fece la sua apparizione all’interno del luogo di culto, accolta con gioioso entusiasmo.

Diversi mesi dopo, una delle nostre mucche era in procinto di partorire, ma il parto si presentava difficile. Una notte, durante l’imperversare d’una bufera, venni destato dai lamenti strazianti della povera bestia, incapace di dare alla luce il suo vitellino.

Capii che non era il momento di tergiversare, spedendo di gran carriera il maggiore dei miei figli a casa del veterinario. Io mi diressi, trafelato, alla volta della chiesa, ricordando il credito in sospeso con S. Antonio.

Entrai frettolosamente nella chiesetta… l’uscio non era ancora stato chiuso. Non volevo dare noia al curato e raggiunsi velocemente l’austera figura, iniziando a pregare con insolito fervore. Il legno da cui era stato creato quell’abate virtuoso, mi autorizzava, per così dire, ad usare modi estremamente familiari.

In quel mentre, mio figlio Giacomo mi batté una mano sulla spalla, chiamandomi con voce sommessa, rotta da un pianto strozzato. La mucca era morta e, con essa, il vitello che aveva in grembo. D’un tratto la disperazione s’impadronì della mia mente, portandola alla soglia del delirio.

Mi rigirai verso la statua di S. Antonio e, alzando la voce, esclamai: ‘ Come ho potuto fidarmi di te, che preghiere pretenderesti di esaudire, tu che quando eri un volgare albero di pere non sei stato in grado di dare nemmeno un frutto?

Quella veste sacra non ha cambiato la tua fondamentale natura, segnata irrimediabilmente dall’inutilità!’.

Tornammo a casa con la sofferenza nel cuore, pervasi dallo sconforto e incerti sulla validità delle nostre convinzioni religiose.”.

“ L’albero che non aveva mai dato frutti, come avrebbe potuto produrre miracoli? Era indiscutibile che il legno del pero avesse subito un minuzioso maquillage, ma questo non poteva significare che la sua originale essenza fosse necessariamente cambiata. Ancora una volta, il destino impartiva all’uomo una delle sue memorabili lezioni.” pensò Ivan in silenzio, aggrottando le sopracciglia.

Nell’arco di pochi secondi tentò di prepararsi a commentare la vicenda, immaginando che ogni sua parola sarebbe stata vagliata accuratamente.

Doveva fare violenza al suo modo d’essere, spendendo poche parole di convenienza e cercando di non esprimere alcun parere personale. “ La storia è avvincente, carica di colpi di scena, ma triste, direi inquietante.” esordì con cautela “ Troppe circostanze sfortunate hanno creato una miscela esplosiva per chi, come voi, era coinvolto nella frenetica sequenza dei fatti!”.

Sulle labbra di Mimmo andava disegnandosi un sorriso indecifrabile, mentre un lampo d’ammirazione gli illuminò lo sguardo. Versò all’ospite e a se stesso un altro goccio del suo distillato portentoso, iniziando a parlare in tono amichevole: “Lei non ama giudicare, mentre riesce a cogliere ciò che le viene appena accennato. Sono fiero d’averla conosciuta, mi creda!

Non pensa che potremmo darci del ’tu’? Renderebbe la conversazione molto più semplice, che ne dice?”.

“ Sono d’accordo!” replicò Ivan. La chiacchierata, allora, arrivò a toccare argomenti più delicati, protraendosi ben oltre la mezzanotte.

 

Il giorno seguente, subito dopo aver pranzato, l’uomo si accomiatò da quella famiglia generosa, serbando nel profondo dell’animo il ricordo indelebile di quell’atmosfera incantata, nella quale era riuscito a riconquistare una parte della sua dignità.

Wolf lo precedeva trotterellando, mentre fiutava il vento di tramontana, levatosi improvvisamente. Le prime, inconsistenti lacrime del cielo cominciavano a bagnare la camicia a mezza manica d’Ivan, annunciando un temporale che si presentava minaccioso. Sulla sommità della collina, a sinistra di una strada sconnessa, si poteva scorgere una catapecchia che, in quel particolare momento, rappresentava un provvidenziale rifugio. Nuvole di pece galleggiavano nell’aria, oscurando un sole malato. La tramontana aveva rafforzato la sua intensità, mugghiando impazzita tra le gole delle montagne vicine. L’inseparabile coppia corse verso la baracca, nel tentativo di sottrarsi alla violenza del nubifragio imminente.

Entrarono, varcando un uscio sgangherato che cigolò in maniera sinistra, sotto la spinta decisa dell’uomo. I vetri delle finestre erano stranamente intatti e sorreggevano infissi rovinati dal tempo e dall’incuria. Un grosso tavolo in legno campeggiava al centro della costruzione, circondato da diverse sedie sbilenche e coperto da un buon dito di polvere. Affilate lungo la parete più lontana dalla porta, tre reti dalle maglie arrugginite sostenevano altrettanti materassi dalla fodera logora e sporca. Sul muro opposto, si potevano notare i resti d’una scalinata in muratura che in tempi lontani, conduceva ad un ormai inesistente piano superiore.

La cascina abbandonata sembrava raccontare la sua storia, mentre, all’esterno, imperversava lo spaventoso acquazzone. La pioggia cadeva impietosa sulla casupola, mentre lampi di luce azzurrina guizzavano sulle sue pareti, disegnando mostruose figure. Il rombo dei tuoni rincorreva l’eco lontana, misurandosi, alla fine, in un’inquietante sarabanda.

Ivan, avvolto nel suo caldo plaid, osservava la scena, affascinato dalla foga inarrestabile della natura. Wolf, nel frattempo, era balzato su uno dei giacigli, appoggiando il muso sulle zampe anteriori, quasi aspettasse la fine dell’inatteso rovescio.  

Le prime, tremule stelle di una notte serena iniziarono a ricamare il nero velluto del firmamento, ammiccando alla falce verdognola della luna, indifferente spettatrice dei drammi terreni.

Uno zefiro primaverile scuoteva le fronde degli alberi, liberandole dalle ultime gocce di quella pioggia infernale che le aveva battute sino a poche ore prima.

Wolf ed Ivan uscirono dal loro riparo per procurarsi dell’acqua, rimanendo affascinati da quell’impareggiabile visione. Si augurarono che oltre il valico sarebbe cambiata la morfologia del terreno, prevedendo che digradasse verso la pianura.

L’indomani si levarono alle prime luci dell’alba, riprendendo il percorso originario.

Una volta superato il passo, la strada divenne più agevole, mentre la vegetazione subiva un significativo cambiamento. Macchie di castagni si alternavano a mandorli in fiore, proiettando la loro ombra su prati verdeggianti. La primavera era tornata a risplendere, accompagnata dal garrulo canto dei numerosi passeri, nascosti tra i fitti cespugli, abbarbicati sui fianchi delle colline.

Ivan si addentrò nel folto d’un boschetto di noci per recuperare le forze e fare uno spuntino.

Il sole era divenuto ardente e Wolf dava chiari segni d’insofferenza.

Sotto il fresco tetto di foglie fu possibile riprender fiato per proseguire alla volta del mare.

Ivan s’era appena messo in piedi, quando la sua attenzione fu richiamata da un singolare fenomeno: nella radura, situata al centro della macchia, si poteva notare un noce di piccole dimensioni, dai frutti microscopici e dalle foglioline slavate. I suoi simili, più grandi e robusti, si erano frapposti involontariamente tra la luce ed il suo fusto, inibendo quelle sostanze necessarie ad un regolare sviluppo. Il notevole ritardo non era altro che il risultato d’una semplice distrazione, nulla di più.

“ Quante storie simili a questa si trasformano in vere e proprie tragedie, in nome della distrazione?” si chiedeva ad alta voce Ivan, rivolgendo lo sguardo dalla parte di Wolf.

L’uomo portò delicatamente allo scoperto le deboli radici dell’alberello, scegliendo un luogo adatto dove trapiantarle. Rovesciò poi l’acqua della sua borraccia sulla terra vicina, confidando in una veloce ripresa della pianta. Si girò verso il cane, quasi volesse coglierne i pensieri, credendo di percepire un moto d’approvazione. Non restava altro che attendere e, per farlo, avrebbe dovuto trattenersi per un lungo periodo di tempo in quel posto.

Gli attrezzi necessari ad edificare una rudimentale casa di campagna erano nello zaino, mentre per il legname non vi sarebbero stati problemi di sorta.

Dopo diverse settimane di duro lavoro, il villino era ultimato, grazie anche ai materiali offerti da Mimmo, colpito dalle nobili ragioni che avevano portato Ivan a fermarsi in quella contrada sconosciuta.

L’albero sfortunato, nel frattempo, era cresciuto notevolmente, mostrando una sorta di gratitudine nei confronti di chi aveva riposto in lui un’incondizionata fiducia. Spesso Ivan si avvicinava al tronco del noce, esaminandone lo stato della corteccia e la grandezza dei frutti, soddisfatto dei primi, esaltanti risultati ottenuti. Wolf, però, mostrava una certa inquietudine. Aveva preso a seguire ossessivamente il padrone, cercando in qualche modo di trasmettergli le sensazioni che lo allarmavano. Ivan interpretò l’atteggiamento del fido animale come un bisogno di  confermare la particolarità del loro rapporto e decise di partire con lui per qualche giorno. Avrebbero visto la costa, come stabilito prima d’incontrare l’albero svantaggiato.

 

Il mare appena increspato rifletteva sulla sua superficie le ombre dei  gabbiani che segnavano il turchino del cielo con i loro voli improvvisi. La risacca flagellava la battigia, producendo il perenne alternarsi delle maree. Una vela bianca all’orizzonte salutava il tramonto infuocato, assumendo gradatamente una svariata gamma di colori. L’arancia matura del sole sprofondava flemmaticamente nei flutti impetuosi, tingendo di rosso la spiaggia deserta.

Le mendaci ancelle della notte soffiavano nei flauti argentati melodie fatte di vento, sottraendo alla vita la perplessità della speranza. L’oscurità prese il sopravvento sul creato, raggelando il sangue d’Ivan. Non riusciva a distinguere Wolf, non lo vedeva. Quel buio, per lui, non avrebbe avuto mai fine!

 

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