Time4TheOther

Lo psicologo della mutua

Era una fredda giornata invernale.

La brina aveva accarezzato i marciapiedi e i giardini.

Carlo era lì, alla finestra. Guardava l’inverno che ricopriva la città, ma il suo sguardo era lontano, perso in ghirigori mentali che saltellavano come scimmie tra il passato e il futuro.

La sala d’attesa era vuota e Marilena, la segretaria dello studio, era indaffarata, o fingeva di esserlo, tra  il computer e mille carte che assiepavano la scrivania.

Carlo lavorava per la ASL. In definitiva quello non era il suo studio, era lo studio dello “Psicologo” (come recitava senza particolare enfasi la targhetta della stanza) e Marilena non era la sua segretaria, ma un’impiegata di profilo amministrativo C1, applicata alla divisione III della ASL 13.

Carlo conosceva i suoi limiti, le sue speranze, le sue ambizioni. Il suo sguardo era lì, assente, a testimoniare tutti i sogni, tutte le frustrazioni, tutti gli adattamenti che aveva sperimentato per una dignitosa sopravvivenza.

“Martedì, ore 10.00: Federica” recitava il suo planning, solitario ed antiquato sulla scrivania troppo ordinata del suo studio. Erano le 10 meno 5 di un martedì come tanti altri. Tra poco Federica avrebbe suonato il campanello, Marilena l’avrebbe fatta attendere e Carlo, prendendosi i suoi soliti cinque minuti in più, avrebbe aperto la porta dello studio, accolto la paziente con uno sguardo sorridente e severo, e tutto avrebbe preso il solito ritmo, sui binari rassicuranti del rapporto terapeutico.

Il copione si stava materializzando sotto i suoi occhi: 10.01, Federica, Marilena, attesa.

Carlo aveva ancora quattro minuti teorici di autonomia che, con qualche squallido trucco da prestigiatore, avrebbe potuto prolungare un po’, giusto per godersi il gusto agrodolce dell’attesa.

Carlo era innamorato di Federica. E Federica l’aveva capito.

Carlo aveva studiato all’Università  come gestire il transfert medico-paziente, quando l’amore avesse incendiato il/la paziente e come il medico avesse  dovuto comportarsi per far rientrare le emozioni in un alveo “normale”. Ma, invece, l’ipotesi che il medico avesse provato ad innamorarsi di una paziente, quello no, sembrava una questione fuori gioco, assolutamente inconcepibile e i libri ne parlavano poco, facendo rientrare il problema in un semplice caso di deontologia  professionale.

Carlo aveva nascosto la sua passione, prima a se stesso, poi agli altri ma… con scarso successo. Forse tra Federica, Marilena e Carlo era proprio lui il meno consapevole e, ancora illuso di vivere le sue emozioni senza inquinare il rapporto terapeutico, si dibatteva come un uccello in gabbia, senza risparmiare le sue ali e le sue penne.

“Federica R.: anni 27 – Anamnesi: soggetto disturbato, separata legalmente da cinque anni, le percosse subite dall’ex-coniuge sembrano aver approfondito una mancanza di stima già presente in età adolescenziale”

Poche parole segnate sul registro. Carlo conosceva bene la sua storia e, aggrappato ad un barlume di serietà professionale, aveva lasciato sulle generiche ogni riferimento che avesse reso Federica R. trasparente per gli archivi informatici di mamma ASL.

Del resto non aveva bisogno di lasciare tracce scritte per mettere a fuoco la storia ed i progressi di Federica.

Era  nella sua vita, nel suo naso, nei suoi pensieri.

Sapeva che, arrivato a quel punto, avrebbe dovuto lasciare il caso ad un altro collega. Era un gran casino così.

Ma quell’inferno odorava di lei.

Ed era già tanto. Anzi era tutto.

Federica aveva intuito ogni movimento delle emozioni di Carlo, anche se lui si era illuso che il camice bianco fosse sufficientemente opaco da lasciare ogni batticuore invisibile agli occhi di lei.

Si era illuso di poter mantenere distinte le due maschere, l’uomo innamorato e lo psicologo e, per qualche tempo, era riuscito addirittura a crederci. Purtroppo la follia di quello sforzo aveva incrinato ogni illusione e  la coscienza dell’impossibilità di ogni mediazione era  diventata costante e lacerante come una ferita aperta.

Erano tutti lì, perfettamente consapevoli dello spettacolo e in attesa del colpo di scena: Federica, Marilena e lo stesso Carlo, spettatore/attore impotente di una tragedia annunciata.

E quest’atmosfera di struggente attesa sembrava incombere sullo studio come la peggiore delle afe estive. La pioggia, i tuoni, i lampi non arrivavano e la tensione nell’aria aumentava.

Federica era sempre più bella. Almeno così Carlo la vedeva.

Gli anni sembravano aver cesellato in modo sapiente ogni centimetro della sua pelle. Carlo conosceva ogni dettaglio del suo volto, come una mappa imparata a memoria di un paese fantastico dove non era mai riuscito, però, a mettere piede. Un mappa dove amava perdersi. Ogni ruga, ogni disegno del tempo sulla sua pelle era un mistero nuovo che anche centinaia di secoli di osservazione non avrebbero svelato del tutto.

Carlo non aveva mai toccato quella pelle, quel viso, quelle mani. Conosceva con gli occhi ma non aveva mai sfiorato un centimetro di quell’universo.

Carlo guardò l’orologio: le 10.06.

Appoggiò la mano sulla maniglia della porta e si fermò. Era così poco il tempo per stare con lei. Ogni momento era prezioso. Anche perderlo aveva la sua magia e, oramai, ogni bilancio guadagno/perdita non aveva valore. Amava aspettarla, amava farla aspettare, amava guardarla, amava immaginare quella porta che si chiudeva e Federica che, finita la seduta, tornava veloce alla sua vita.

La mano sulla maniglia fredda. Ancora un momento. Un momento in più per un’ennesima, inutile, riflessione. No, non ce l’avrebbe fatta quel giorno. Forse la prossima volta. Ma la scena era sempre lì, prima e dopo l’appuntamento con Federica: lui che si riprometteva, sempre meno convinto “…la prossima volta le dico che non posso più seguirla … la passo ad Aldo e morta lì …”. Era l’unica soluzione. Aldo l’avrebbe seguita benissimo: aveva anche più esperienza di lui e tutto sarebbe andato liscio.

Tutto coerente, tutto pulito. Come l’atmosfera asettica di quell’ambulatorio.

Bastava solo un piccolo sforzo.

Nessun ferito e nessun morto. Un gesto necessario.

Nessuno avrebbe mai saputo nulla, perché nulla era successo e nulla sarebbe potuto più succedere, nemmeno in futuro. Carlo sarebbe tornato alla sua vita  normale di quarantenne divorziato, professionista stimato e rispettato. Avrebbe continuato a coltivare le sue amicizie. Avrebbe, ogni tanto, accarezzato il corpo di una donna sempre diversa e tutto si sarebbe sciolto come neve al sole.

Cosa c’era di più semplice? Cosa c’era di così difficile?

“… la prossima volta …”

Quella maniglia conosceva ogni sfumatura del sospiro che accompagnava costantemente l’apertura della porta.

Che bella bugia  “… la prossima volta …”.

Dolce come l’odore di lei. Impossibile da rispettare.

Come era parimenti impossibile ogni follia che smuovesse le acque: una carezza, un bacio, un addio, un “ti amo”.

“… la prossima volta …”

Forse  davvero sarebbe stata la volta buona, “… la prossima volta …”. Chissà !?

Carlo spinse in giù la maniglia ed aprì la porta.

Federica gli sorrise in quel modo enigmatico che l’aveva affascinato già dal primo incontro.

“Buongiorno, signora R., si accomodi”

Federica si alzò, fece un cenno di saluto a Marilena ed entrò.

L’odore di lei era sottile come una ragnatela. Carlo conosceva ogni sfumatura di quell’odore: Chanel 19.

L’odore era sempre diverso, si mischiava al sudore  della pelle in estate o alla lacca che a volte Federica usava per tenere la piega.

“Buongiorno … come andiamo Federica?”

“Bene …” ma il tono tradiva un’emozione, forse un rimpianto, forse una paura; Carlo aveva affinato le sue abilità nel leggere nelle sue espressioni ogni minimo moto dell’animo.

Ora, però, in modo inspiegabile, Carlo percepiva chiaramente dentro di sè una strana angoscia. Un’angoscia molto diversa dal senso di continua frustrazione per quell’amore impossibile. Era solo paura. Panico. Che tutto stesse per finire, anche a prescindere dal fatto che lui avesse preso coraggio e mollato il colpo.

“Che c’e’ Federica? La vedo preoccupata …”

“Carlo, basta. Metti giù la maschera!”

Carlo arrossì, come un bambino scoperto con le mani nella marmellata. Non era lo psicologo irreprensibile che aveva nel suo cuore solo il bene del paziente. Era solo un uomo innamorato, perso in un sentimento impossibile, invischiato in sensi di colpa e, cosa che più lo umiliava e lo spaventava, forse anche scaricato come un amante inopportuno.

“Federica, ma cosa dice … non capisco …”

Carlo aveva capito benissimo, ma stava  giocando l’ultima carta che gli rimaneva, proteggersi, almeno per qualche momento ancora dietro quella maschera che, forse inconsapevolmente, anche Federica avrebbe preferito che lui continuasse ad  indossare.

“Carlo basta. Sei stato carino con me e mi hai aiutato molto. Ma ora no, non penso che tu mi possa aiutare ancora. Carlo, io per te non sono una semplice paziente.”

Federica sembrava triste e come se stesse facendo uno sforzo. Stava lottando, ma stava andando incontro alla sua vita. A un sole che quell’ambulatorio sembrava allontanare ogni giorno di più, con quelle tendine fatte di ambiguità, con quell’atmosfera opprimente che odorava di sentimenti inesprimibili.

“Federica, forse hai frainteso il mio atteggiamento. Oramai sei qui da  tre anni. E’ normale che ti voglia bene in maniera diversa da un paziente che vedo per la prima volta.”

“Conosci tu i tuoi sentimenti. Io non posso conoscerli per  te. Ma non ti credo e non credo che in questi termini ci sia spazio per una chiarezza e per un lavoro insieme. Carlo sii sincero. Così non mi aiuti. Né aiuti te stesso …”

“Federica, se vuoi finire la terapia … liberissima, ma …”

“Ecco, fermati qua. Se non riesci, nemmeno adesso, a essere sincero con me … va bene anche cosi’, ma non mi prendere in giro. Inventati i motivi che ti sono più comodi, ma non raccontarmeli. Tienili per te. Sai quanta stanchezza ho. E sai quanta fatica sto facendo per recuperare un pizzico di considerazione per gli uomini … Carlo ti posso anche capire, ma fermati qua. Non rendere tutto piu’ difficile, aumentando il carico di dolore con la storiella della paziente che si inventa tutto pur di concludere la terapia”.

Carlo si fermò. Abbassò gli occhi e si guardo’ le mani, le unghie ben curate, la cartellina sulla scrivania, il calendario appena sopra il suo campo visivo. Federica no, non la guardò. Gli occhi preferivano altri panorami, più rassicuranti, più piatti, forse, ma che in qualche modo gli confermassero l’ultima bugia, il medico stimato che parlava pazientemente alla Federica che voleva andar via, senza che lui ne avesse alcuna responsabilità.

“Io vado. Ciao” Federica si alzò. Un ultimo sguardo, triste, forse deluso.

Forse avrebbe potuto amarlo.

Forse avrebbe potuto accettarlo anche con tutte le sue paure.

Ma c’era bisogno di almeno un piccolo atto di coraggio.

E Carlo aveva preferito, anche per l’ultima volta le parole, il silenzio, la fuga.

La  guardò andar via. Impassibile.

Chissà se appena Federica è uscita, chiudendo gentilmente ma con fermezza la porta, Carlo ha avuto il coraggio di alzare lo sguardo.

Chissà se ha guardato per un’ultima volta Federica andar via.

Chissà se ha versato una lacrima.

Chissà se ha guardato fuori dalla finestra per rubare un’ultima immagine di lei.

Le  notizie purtroppo finiscono qui.

Marilena non ha voluto dirmi altro e Carlo è rimasto sempre lo stesso.

Lo studio è sempre li’ e lui sbircia ancora fuori dalla finestra.

Non so se è ancora lì, in attesa di lei, o sta contemplando la sua vita.

Da qui sotto, in strada, non riesco a vedere il suo viso.

E anche se ci fosse una goccia, sarebbe difficile capire se è una lacrima sulla guancia di lui o è pioggia sul vetro.