Time4TheOther
Follie in punta di piedi

Un breve racconto

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Anno 2045.

Pianeta Mercurio.

Era planetaria 3/B.

 

Il sole artificiale dipingeva di blu le vetrate dell’edificio.

Marco osservava il tramonto con occhi assenti.

L’umidità della stanza era perfetta. Anche quella esterna era quasi sopportabile. Ora si poteva anche uscire senza maschera protettiva.

Ma Marco preferiva il guscio protettivo degli interni.

Marco era figlio della prima generazione di coloni. Era nato tra le mura di una clinica climatizzata, era cresciuto all’interno di un sistema perfetto… quando lui era bambino l’aria esterna era ancora letale; impensabile, anche per le proiezioni future dei sistemi computerizzati, una futura realizzazione di un clima esterno compatibile con la respirazione umana.

Marco ricordava con curiosità i racconti nostalgici del mitico Pianeta Terra ma, a parte gli occhi luminosi del padre, non gli era rimasto molto dentro.

Il suo mondo era tra le quattro mura. Non aveva sperimentato né, del resto, desiderato nient’altro. Come la maggior parte della sua generazione.

L’esperimento sembrava riuscito perfettamente: 178 ragazzi cresciuti senza particolari problemi nell’era planetaria 3/B.

Marco si perdeva nei riflessi blu del sole satellitare.

Le lacrime gli scendevano innocenti sulle guance pallide.

Un sole rosso cremisi, un’ingiustizia diventata natura.

Un sole di metalli pregiati, una luce da continue deflagrazioni nucleari che faveva piangere di commozione un bambino frutto di un esperimento riuscito.

Marco non riusciva a sentire i suoi sentimenti. O meglio. Li vedeva dipingersi nelle espressioni del suo viso. Li percepiva dalle guance bagnate di lacrime. Era anche lui figlio di un sole di metallo.

Eppure era umano. Dolce, sensibile, indifeso, nervoso, buono, capriccioso come i suoi cugini della Terra.

Avrebbe amato come tutti, una volta che il suo cuore avesse iniziato a sentire il turbinio dei terremoti adolescenziali… forse…

Si asciugò le lacrime con un gesto sorpreso, come gli accadeva di tanto in tanto, quando la chimica dei suoi geni era più veloce della sua sensibilità ottenebrata.

Gocce di umidità si accumulavano lente sul vetro di plastica della finestra della stanza.

Che bella stanza… le superfici arrotondate non davano modo agli spigoli della vecchia architettura d’interni di creare divisioni e contrappunti violenti tra gli spazi.

Marco guardò l’ogiva della finestra, cercando di decifrare un segno del passato.

Un passato che lì era troppo recente per essere storia, un passato che ribolliva nel suo patrimonio nascosto, ma che non trovava fuori alcun segno della sua realtà. Come in un dramma decadente, come in un atto di no-sense, dove il cuore, la realtà degli oggetti, le espressioni degli occhi non trovano consonanze, solo lo stridio assordante di una strada piena di estranei.

Marco avrebbe gridato la sua realtà, il suo bisogno di risposte, la sua sete di radici.

Ma nessuno avrebbe risposto.

E Marco avrebbe continuato ad asciugarsi meravigliato le lacrime, gocce estranee sulla pelle perfetta. Nessuno gli avrebbe mai svelato la possibilità di provare sentimenti. Troppo ovvio.

Troppo poco ovvio per lui, innamorato di un sole artificiale.

 

“Marco… non mi saluti nemmeno?”

Era Oside, la sua compagna di corso.

Avevano quindici anni. Perfetti nella loro giovinezza che mordeva i freni di un’infanzia mai vissuta; erano anche incredibilmente inesperti del tremore di un sorriso, dell’incertezza di uno sguardo, del significato di una carezza.

Gli adulti che li circondavano erano troppo presi da un’atmosfera opprimente per fare qualcosa di diverso dall’affrettare sempre i tempi per poter tornare presto sulla Terra. L’amore era un lusso che pochi avevano voglia di concedersi.

I predistinati, la vera prima ed unica generazione extraterrestre erano loro, quel centinaio di adolescenti. Gli unici che potevano-dovevano-volevano guardarsi intorno e riconoscere tra le lamiere e la plastica la stessa poesia che i loro padri avevano imparato a vivere tra il solido delle pietre, l’etereo del vento, il liquido di un mare imprevedibile.

 

Marco era assolutamente distratto dalla sinfonia muta delle sue emozioni che l’entrata di Oside nella camera era passata assolutamente indifferente.

Oside non era solo una delle tante altre compagne di corso. Oside sentiva qualcosa per lui.

Anche lei aveva difficoltà a dare un nome e un cognome a quelle emozioni imprevedibili che, comunque, avrebbero creato qualche problema ai loro coetanei terrestri.

L’età era quel periodo bellissimo dove il sesso si confonde con la dolcezza, dove l’innamoramento di un momento è più volento delle passioni che vivranno pienamente solo tra qualche anno.

Oside lo guardò mascherando la delusione e la civetteria di una ragazzina in amore con l’aria professionale di una donna in miniatura…

 

Il tempo sarebbe passato anche per loro.

E passò, mischiando aurore in tecnhicolor a labbra umide e calde.

Passò anche il periodo dei riflessi blu del sole.

Ora il sole era quasi indistinguibile da quello reale che bruciava solo qualche migliaio di kilometri di anni luce lontano da loro.

 

Marco aveva trent’anni, Oside ventotto.

Avevano resistito ai miraggi conservatori dei genitori innamorati del calore instabile di un mucchio di terra imprevedibile.

Erano rimasti lì, su Mercurio. Assieme al settanta per cento dei 178 rampolli della prima ondata.

Erano loro i padri pellegrini. Erano i primi.

Ed i primi e gli unici umani  a poter scientificamente ed incontrovertibilmente dimostrare il loro essere la gallina, senza dover dare conto del loro essere stati un giorno anch’essi uova di qualche volgare pollastro.

Purtroppo un’esclusiva un po’ troppo cara, anche se scelta “liberamente”.

Un po’ troppo duro nascere e morire. Specie se le “varianti” così inevitabili sulla vecchia ed antiquata Terra, lì erano un’eccezione rarissima e perseguitata con il massimo crudele zelo.

E, del resto, i cuccioli d’uomo non potevano nemmeno immaginarlo.

Erano cersciuti amando l’aria condizionata, piuttosto che follia del vento ed avevano dovuto scegliere quando l’odio generazionale distorceva con violenza le dimensioni della realtà e corrompeva la lucidità degli animi, già tormentati dai dubbi dell’adolescenza.

Solo più tardi avevano iniziato a soffrire. Troppo tardi.

Quando i portelloni asettici della vita extraterrestre erano già chiusi sul loro futuro.

 

La pelle di Oside era ancora liscia come ai tempi dei suoi quindici anni.

Anche la sua anima era rimasta tutto sommato vergine, non colpita dalle assurdità della Terra.

Il suo sguardo conservava la vitalità di una bambina e le sue gambe, lunghe e affusolate, curate dalla ginnastica obbligatoria non sembravano vere, troppo statuarie, troppo perfette, troppo poco inquinate dalla vita sedentaria delle volgari terrestri.

Eppure le incertezze del suo sguardo, i suoi gesti sicuri, eppure imperfetti, le sue parole erano comunque umane. La sua dolcezza era umana. Forse un po’ troppo nutrita dai programmi dell’ingegneria educativa dell’era 3/B.

Oside era stata fortunata. Molto più fortunata degli altri 177.

I genitori di Oside erano davvero degli inguaribili terrestri. Erano anche stati in galera per le loro idee, quando lo sforzo della colonizzazione non poteva tollerare il dissenso e il sistema non si era ancora evoluto al punto da assorbire le diversità e da eliminare la violenza delle istituzioni. 

Oside aveva vissuto il conflitto delle passioni, la contraddizione di una patria di plastica e il richiamo della Terra, Gaia impazzita, lontana e magica. Oside aveva sofferto senza rimanere ferita.

Oside aveva mantenuto il contatto con il proprio cuore. Oside aveva sofferto, quando ogni sofferenza era bandita. Oside aveva cercato, quando tutte le soluzioni erano preconfezionate, invitanti logiche scorciatoie. Oside era bella. E la sua non era solo la bellezza perfetta da laboratorio polivalente. Oside portava nel suo sguardo la gioia della scoperta. Oside portava nei suoi gesti la carezza del vento mai vissuto ma mai dimeticato. Oside portava un pezzo di Gaia sulla sua pelle, un pezzetto che era passato inosservato ai soul-detector. Un pezzetto talmente amalgamato alla follia della colonizzazione da sembrare solo una tollerabile imperfezione di un sistema magnanimo.

Ma Oside aveva il fuoco.

E Marco lo sapeva; era quello che aveva fatto scattare la scintilla con il suo combustibile sommerso. Oside aveva liberato qualcosa che Marco non conosceva ancora. Ma che profondamente lui stava cercando da una vita, che stava sudando e faticando inconsapevolmente per conoscere ed imparare ad amare. Anche Marco aveva il suo fuoco. Forse anche più bello di quello di Oside. E solo Oside era riuscito a vederlo, prima ancora di Marco. E Oside si era innamorata di quel fuoco. E Marco non capiva come Oside avesse potuto perdere la testa per quello che lui vedeva come una montagna di ghiaccio. Marco ancora non si era riscaldato con il suo stesso fuoco. Non aveva nemmeno immaginato di poter sciogliere il ghiaccio. Per conoscere il freddo del ghiaccio bisogna aver sentito il calore del fuoco. Era strano, quindi, che Marco avesse avuto la percezione della sua anima come ghiaccio.

Eppure era successo. Forse quando il suo radar interiore aveva iniziato a sentire il fuoco invisibile.

Saranno state quelle strane lacrime alla vista di un tramonto d’acciaio.

 

Marco accompagnava la splendida Oside. Il peso dei loro corpi era troppo leggero anche per l’implacabile Mercurio.

Avrebbero percorso ancora il calore del sole al plutonio. Si sarebbero ancora abbornzati alla luce di lampade fotovoltaiche. Ma la vita avrebbe fatto il suo corso. Le loro inquitudini avrebbero spazzato via la follia della 3/B. Le loro mani avevano imparato ad accarezzarsi. Le loro parole avevano vinto il ghiaccio rassicurante del comportamento innocuo e inutile del programma educativo.

Avevano anche imparato a litigare. Forse guardando qualche film proibito dei perduti anni 2010.

 

Eppure erano vissuti. E stavano ancora vivendo. E sarebbero ancora vissuti per tanti altri anni.

E, comunque sarebbe andata, non avrebbero mai potuto dire di aver sopravvissuto.

Semplicemente e solamente perché avevano vissuto cercando il calore sotto l’artificio di reazioni nucleari senza per questo sentirsi plutonio.

Perché avevano scoperto senza fretta, quello che nessuno attorno a loro aveva cercato.

Quella scoperta che ora era all’interno della vita di tutti senza che i due l’avessero mai esibita con senso di superiorità.

Quella scoperta troppo ovvia.

Quella scoperta che per rimanere viva deve nutrirsi anche della gioia degli altri.

Quella scoperta che –nei fatti – nessuno aveva attribuito ad Oside e Marco.

 

Oside e Marco eroi sconosciuti.

Ora camminano mano nella mano e le loro figure si perdono nella folla senza forma.

Questa storia è tratta da un ologramma ritrovato nel 2078, frammento del diario di Marco.

Nel 2066 Mercurio è scomparso travolto da una “variante” impazzita del sole n.4.

Un malfunzionamento della reazione atomica del plutonio e poi il fungo.

Così sole 3. Così sole 2. Così sole 1. Così Mercurio, ora sasso radiottivo che vaga impazzito nel sistema solare.

 

Si racconta che a generare il malfunzionamento sia stato un attacco degli hacker oltranzisti della Verde Terra. Ma sono solo ipotesi.

La più bizzarra è che il figlio del progettista software sia rimasto solo in sala server ed abbia installato un gioco 3d – Doom IX - che sia entrato in conflitto con il sistema operativo.

I più maligni insinuano che il sistema sia un Windows XP service pack 3.

 

Ma non si può dare sempre la colpa di tutto a Microsoft!