Time4TheOther

Occhiali da sole - cap.I

di Alarico Bernadi




Era il 26 luglio 1953 di un’estate torrida e opprimente. Isernia mostrava ancora le cicatrici delle profonde ferite, lasciate dalla seconda guerra mondiale.
In casa Galdini, la felicità per la nascita del primogenito aveva reso più sopportabile quella cappa afosa ed umida che sovrastava il cielo e permeava la terra. Insieme al frinire monotono delle cicale, s’udiva l’allegro vociare dei partecipanti al battesimo di Febo. I cori stonati dei commensali portavano una nota di gaiezza e d’insolita felicità in quella canicola carica di tristi ricordi.
Ivana Campise stringeva tra le braccia il proprio figlio, fissandolo negli occhi grandi ed espressivi. Giulio Galdini la osservava, cercando di dissimulare la commozione che lo pervadeva.
I brindisi al neonato divenivano il pretesto per tracannare l’ennesimo bicchiere di quel vino aspro e schietto, frutto di una terra ingrata.
A tarda sera gli ospiti cominciarono ad accomiatarsi e ben presto Giulio, Ivana e Febo rimasero soli.
Avevano coronato il loro sogno d’amore, nonostante la famiglia Galdini fosse contraria al matrimonio del figlio con una “Campise”di umili origini. L’indomani, Giulio sarebbe tornato al lavoro ed Ivana alle faccende domestiche.
Da quando Febo era venuto alla luce, si sentivano spinti a preparargli un futuro diverso, privo di quelle rinunce che avevano caratterizzato la loro esistenza.
La crescita di Febo, i suoi progressi ed i primi passi nel mondo della scuola, erano i motivi conduttori di una vita vissuta con discrezione. Le foto si accavallavano agli eventi che erano riusciti a far breccia nel cuore di nonna Beatrice. In casa Galdini la contrarietà andava sfumando ed al suo posto prendeva sempre più corpo uno smisurato affetto per il nipote ed un’inaspettata stima per Ivana, che non veniva più chiamata la “Campise”.
All’uscita di scuola, Rodolfo Galdini attendeva quasi sempre il nipote. Amava pavoneggiarsi per il centro della cittadina, soffermandosi con i conoscenti e gli amici ai quali dava puntuale resoconto dei successi scolastici del bambino. Febo stringeva la mano del nonno quasi a volersi ritrarre da quegli elogi che sentiva opprimenti. Era una vera liberazione quando, da lontano, scorgeva il padre: correva incontro a quella figura tanto amata che lo riportava ad una giusta visione della realtà.
La sicurezza e la misura erano indispensabili a quel virgulto che, nella foga di crescere, sapeva distinguere il tronco che gli avrebbe dato il giusto sostegno. Giulio sollevava il figlio in aria e, con delicatezza, lo riaccompagnava a terra, scompigliandogli i folti capelli castani. Un gesto semplice, carico di frasi non dette: parole pensate e trasmesse vicendevolmente, come se facessero parte di un gergo, conosciuto solo dai due.
Ivana Campise, nella sua semplicità e con la sua cultura elementare, si rivelava una donna ricca di pregi, degna di essere a fianco dell’uomo che amava. Il bilancio familiare, costituito solo dallo stipendio del marito, quadrava puntualmente alla fine di ogni mese. Gli stenti passati e la lotta per la sopravvivenza erano stati buoni maestri, insegnandole a spendere con parsimonia. Le sue mani correvano, abili, ovunque ve ne fosse bisogno.
Beatrice condivideva sempre più la scelta che il figlio aveva fatto nello sposare quella donna, dimostrandosi disponibile alla soluzione dei problemi che Giulio si trovava ad affrontare.
Febo aveva ormai quattordici anni e mostrava una maturità inconsueta per un ragazzo di quell’età.
I buoni risultati a scuola lo avevano reso meritevole di una borsa di studio. Questo bastava a farlo sentire parte integrante dell’economia familiare.
I Galdini erano soliti trascorrere le vacanze estive al mare. Anche lì, il ragazzo aveva trovato un lavoro come aiuto-bagnino. Nelle pause sedeva su un pattino di salvataggio, fissando l’orizzonte come se volesse oltrepassarlo con lo sguardo. Era lì, con gli occhi castani, le labbra carnose ed il naso all’insù, in attesa di decifrare i misteriosi messaggi che la brezza marina portava con sé.
In quei momenti, Giulio gli si avvicinava, riportandolo alla realtà.
:- Avrai tempo per realizzare i tuoi sogni!… Ora va’, corri dai tuoi compagni!-.
Febo si alzava e, dopo una breve rincorsa, si tuffava nei flutti per riemergere tra gli amici festanti.
Una volta ad Isernia, si dedicava a ripassare le nozioni apprese nell’anno scolastico precedente. Leggeva i suoi libri con interesse, non accorgendosi di essere spiato dagli occhi compiaciuti della madre. Soltanto le grida dei ragazzi che giocavano a pallone riuscivano a distrarlo. Febo, allora, si precipitava in strada per partecipare a quel gioco che accentuava in lui lo spirito di competizione.
L’abitazione dei genitori di Giulio era situata nel centro del paese. Una finestra rimaneva illuminata fino a tarda notte e per questo veniva chiamata la “casa della luce”. Rodolfo Galdini, avvocato di successo, si tratteneva fino a notte inoltrata nel suo studio. Amava fumare la pipa immerso in nuvole di fumo tra le quali, a fatica, riusciva a scorgere le righe dei libri che sfogliava. Non erano testi di diritto e nemmeno trattati di giurisprudenza quelli che l’uomo leggeva con avidità, ma raccolte poetiche.
Quella notte, la sua attenzione si era soffermata sui versi del canto “Trionfo di Bacco e Arianna”. Richiuso il libro, ripeteva tra sé:- Di doman non c’è certezza…-. Già,… non era possibile prevedere il futuro. Cosa sarebbe accaduto a Febo, quale destino lo attendeva?
Riposto con impeto il testo, si alzò dalla poltrona, dirigendosi a grandi passi verso la finestra. La luna rischiarava i tetti, i comignoli ed il cielo. Emise un profondo sospiro misto di impotenza e rassegnazione. Pensò:- E' pur sempre un Galdini,… ce la farà!-.
Fece per uscire dalla stanza, ma all’improvviso si arrestò, ritornando sui suoi passi per controllare se la luna splendesse ancora! Era lì, rassicurante e beffarda, pronta a celarsi dietro una nube passeggera.
:- Un imprevisto! Ma quale vita può definirsi tale senza imprevisti? Potrà contare sempre su di noi!- mormorò, rinserrando i battenti. Spense la luce e andò a riposare.
Beatrice, ancora sveglia, attendeva il marito. Erano ormai diversi anni che il suo sonno si era fatto leggero e discontinuo. Aveva riposto gli occhiali sulla rivista finita di leggere poco prima, rimanendo nel buio a fissare il soffitto, senza peraltro scorgerlo. Salutò Rodolfo e attese che le si adagiasse accanto. :- Quando smetterai di venire a letto così tardi?- chiese amorevolmente.
:- Voglio sottrarre alla morte più tempo possibile - rispose l’avvocato, aggiungendo:- Nel cielo splende la luna, sai? Ho riflettuto su nostro figlio e sulla sua famiglia! -
:- Cosa dici, la luna, Giulio, Febo… cos’hanno in comune? -
:- Hanno un nesso, ma è difficile spiegarti come sono arrivato a pensare ai nostri cari, come la luna mi abbia portato a ricordare la giovinezza con le sue speranze e le sue paure. -
Beatrice tacque, ricordando i timori passati, le preoccupazioni per la salute del figlio ed i sensi di colpa che avevano tormentato i primi anni della sua vita coniugale. Gli ospedali si susseguivano nella sua memoria, iniziando a turbarla.
La famiglia Leoni era stata segnata dalla cecità di una lontana consanguinea, dovuta ad una forma di miopia degenerativa che aveva colpito anche diversi parenti in modo meno grave.
Gli occhiali lasciati sul comodino riflettevano la luce di un lampione che rischiarava l’abat-jour di cristallo verde.
Un silenzio irreale aleggiava nella stanza, rotto da un pianto strozzato. Beatrice era miope e piangeva di gioia al pensiero che Giulio fosse sfuggito a quel male lento ed inesorabile.
Rodolfo posò la mano sulla spalla della compagna e, con voce rassicurante, bisbigliò:- Calmati…. Febo potrà contare sempre su di noi. -
Le luci dell’alba spazzarono la nebbia notturna, riportando la serenità in casa Galdini.
Quell’anno l’autunno era mite e la temperatura dava modo di poter godere dei tiepidi raggi del sole che raggiungevano a stento l’aula dove Febo seguiva la lezione d’italiano. Ascoltava con attenzione le parole dell’insegnante che riassumevano la biografia di uno scrittore. La campanella riportò tutti alla realtà ed i ragazzi iniziarono ad affollare i corridoi della scuola, precipitandosi verso l’uscita.
Si dividevano in piccoli gruppi che andavano in molteplici direzioni per scomparire nei vicoli cittadini.
Febo prese la strada di casa, giocherellando con un pampino rosso strappato da un muro.
Quella foglia gli rammentava che presto sarebbe giunto l’inverno ed un anno scolastico più impegnativo.
Camminava, ma la sua andatura era più simile a quella di un atleta che sfiora appena il terreno, ansioso di giungere al traguardo.
Arrivato a casa, trovò il padre, uscito in anticipo dal lavoro. :- Cosa pensi dei tuoi insegnanti? - domandò Giulio.
:- Vorrei sapere tanto cosa pensano loro di me! - fu la risposta immediata del ragazzo. :- Chissà se sarò in grado di affrontare gli studi che mi attendono. -
Giulio commentò:- Sei modesto. Cerca di conservare questa virtù. Ti sarà utile.-
Nel pomeriggio sarebbero dovuti andare a far visita alla zia Angela, sorella di Ivana, in occasione del suo compleanno.
Verso le quattro la famiglia si ritrovò nel salotto della festeggiata. I Campise si baciavano tra loro, ridevano dei pettegolezzi che raccontavano, quasi vivessero storie altrui arricchite dalle immancabili esasperazioni della fantasia. Giulio e Febo erano disorientati in quel bailamme innaturale che aveva trasformato l’appartamento in un bazar orientale. Il silenzio si era rintanato in un cantuccio per riapparire, timidamente, al momento del taglio della torta. Poi le grida si erano fatte più assordanti e l’alcool era cominciato a scorrere a fiumi. Giulio e Febo osservavano quella gente, ammutoliti dalla volgarità della scena. Il ragazzo era soggetto a complimenti che accettava a malincuore. Gli occhi dei due correvano spesso agli orologi e, finalmente venne l’ora dei commiati. Giulio recuperò il figlio, prese la moglie a braccetto e si allontanò da quel posto infernale con passo nervoso. Una volta in strada gli parve di trovarsi in una dimensione nuova, in un angolo ameno di quella città che amava per la sua moderatezza. La frenesia e l’ignoranza si erano coalizzate contro il suo animo, lo avevano ferito nella dignità e nauseato nel profondo del cuore. Febo sembrava condividere le sensazioni paterne ma entrambi non diedero a vedere nulla ad Ivana. Rientrati, il ragazzo borbottò:- Finalmente a casa! -
Quella sera ci fu un’animata discussione tra Giulio ed Ivana sulla festa in casa Campise.
Febo ascoltava, ma non riusciva a seguire l’intero discorso perché i genitori erano chiusi in camera.
:- Non voglio più avere a che fare con i tuoi! Ti consiglierei di fare altrettanto per il bene di nostro figlio - diceva Giulio rivolgendosi alla moglie.
:- Che hanno fatto i miei al ragazzo? Non capisco - ribatteva la donna con aria seccata.
:- Credi che Febo sia sciocco, che non abbia notato le scene poco edificanti in casa di tua sorella? Nostro figlio potrebbe farsi un’idea sbagliata sulla propria madre…. Pensaci!-
Ivana, fissando il volto crucciato del marito, ammise:- Hai ragione. In casa mia si esagera….
Lo riconosco. -
:- Sarà sufficiente tenere a distanza i tuoi senza creare tensioni, senza che nessuno di essi possa biasimarti - le consigliò il marito. Si aspettava un’obiezione da parte della donna che amava.
In quella circostanza, però, rimase deluso.
Ivana era d’accordo, ma sapeva che non sarebbe stato facile sfuggire alle invadenti premure dei suoi. Si avvicinò all’uomo con aria seducente, lo baciò sulle labbra, sussurrando:- Sarà fatto signor Galdini! -
La luce fu spenta ed i sospiri si sostituirono alle polemiche.
Nella camera adiacente Febo rimuginava:- Che differenza fra i Galdini ed i Campise, che strana unione tra mamma e papà! -. Guardò in direzione della sveglia, era tardi! L’indomani avrebbe dovuto alzarsi presto. Si diresse verso il letto e, provato da quella giornata, cadde in un sonno profondo.


Al termine di un porticato sottostante un antico palazzo, si apriva un portone con robusti stipiti in legno, incorniciato da un marmo corroso dal tempo. In alto si leggeva “Liceo Ginnasio Onorato Fascitelli”. L’androne era scuro. Una scalinata, intercalata da lunghi pianerottoli, portava alle classi ed agli uffici. La luce penetrava da finestre squadrate, illuminando le mura grigiastre.
Il riverbero dorato d’un raggio di sole cadeva sui libri polverosi di uno degli scaffali della biblioteca. Il grande tavolo, al centro della stanza, era attorniato da poltrone rivestite di pelle.
Febo sedeva su una di esse, sfogliando attentamente un libro.
:- Devo farcela. Gli esami sono vicini e mi sembra di avere così poco tempo per sostenerli!-Leggeva e rileggeva lo stesso brano, dandone ogni volta una diversa interpretazione.
La meticolosità del nonno paterno si rispecchiava nel suo carattere e lo portava a pretendere il meglio da se stesso. Sulla porta si era fermata una ragazza che lo fissava con curiosità.
Era alta di statura, magra e slanciata. I capelli corvini ed inanellati le scendevano copiosi sino alla vita. Gli occhi grandi e cerulei, il naso proporzionato, le labbra tumide e carnose la rendevano irreale e statuaria. La pelle chiara sprigionava pallidi riflessi d’alabastro.
Quella visione distolse Febo dalla lettura. Alzò gli occhi e la fissò, sentendo il sangue ribollirgli nelle vene, le tempie pulsare freneticamente ed il cuore stringersi in una morsa implacabile.
Una sensazione mai provata lo pervase. Portò le mani tremanti al petto nel tentativo di riaversi. Con voce rotta domandò:- Hai bisogno di un libro? Se vuoi posso aiutarti. Ultimamente passo molte ore qui dentro!-
:- Sei pallido. Da quanto tempo non fai una buona passeggiata, che cosa leggevi con tanto interesse?-
:- Mi preparo per gli esami di maturità, temo di non farcela - rispose il giovane, passandosi una mano sulla fronte madida di sudore.
:- Anch’io ho gli esami ed in certi momenti mi sembra di non aver mai letto un libro né seguito
una lezione!-
Il giovane Galdini si avvicinò tendendole la mano e con voce ferma si presentò:- Mi chiamo Febo. -
:- Ed io Milena. -
Le due mani si strinsero con forza e per qualche istante rimasero strette, quasi non volessero staccarsi. I loro sguardi si cercarono, sperando di cogliere un qualche segno che tradisse l’emozione del momento. La ragazza, però, si diresse verso l’uscita, scomparendo dalla vista di Febo.
Questi non indugiò e, indossato il giaccone, iniziò a correre verso le scale. Voleva continuare quel discorso interrotto così bruscamente.
Erano le cinque del pomeriggio: il cielo era terso ed i rami degli alberi iniziavano a tingersi di verde. Milena procedeva con passo lento in direzione della piazza principale. Si guardava intorno come se volesse scoprire, in quello scenario, l’antico mistero del risveglio della natura.
Febo, evitando i passanti, la raggiunse. :- Ho deciso di seguire il tuo consiglio. Che ne diresti di fare quattro passi nel parco?- propose con imbarazzo.
Gli occhi della fanciulla divennero raggianti ed un sorriso appena accennato le illuminò il volto.
:- Perché no? Al diavolo gli esami!-
I due si incamminarono verso la meta prescelta, chiacchierando allegramente.
Nel parco, l’ombra dei pini cadeva sui viottoli pietrosi, disegnando fluttuanti arabeschi.
Il lieve spirare del vento, le aiuole fiorite, il lontano cinguettio degli uccelli immergevano i due in una armoniosa sinfonia di colori e di suoni. Il giovane era visibilmente attratto dalla compagna.
I suoi gesti e la voce argentina spingevano Febo a conquistarla.
:- Mi sembra di conoscerti da sempre e non potrei immaginare la mia vita senza la tua presenza, credimi!-
:- Non stai esagerando? Le tue parole suonano troppo vere o troppo lusinghiere. Non mentire, odio i bugiardi.-
Il viso del ragazzo s’adombrò.
Strinse le labbra e, ferito nell’amor proprio, esclamò sdegnato :- Non mentivo! Credimi.-
:- Ti conosco appena, devi concedermi il beneficio del dubbio!-
Il giovane si rasserenò ed aggiunse:- Sono d’accordo. -
I loro sguardi evitavano d’incontrarsi, ricordando di essersi incrociati poco prima con insolita curiosità. Ripresero a camminare in silenzio. Il sole scompariva tra le colline verdeggianti, creando un turbinio di chiaro-scuri che si riversava sui due confondendoli in una sola immagine. Febo prese la mano di lei, stringendola delicatamente. Milena non la ritrasse!
Ritornarono, mano nella mano, verso l’abitato e, giunti a un bivio, si fermarono.
Imbruniva, qualche finestra era già illuminata ed i pochi passanti che ancora popolavano le strade si dirigevano frettolosamente verso casa. La cittadina si preparava ad accogliere la notte imminente.
:- Vorrei che ci rivedessimo ancora - disse Febo.
:- Ricordiamoci degli esami, non bisogna dimenticarli - rispose Milena, ritornata improvvisamente alla realtà.
:- E’ vero, dobbiamo farcela - aggiunse Febo con velata tristezza e si salutarono.
Il giovane, fischiettando, correva dai suoi che sapeva già in ansia per il suo ritardo. Rientrato a casa, spalancò agitato la porta del salotto e salutò i genitori. :- Studi troppo!- osservò il padre, fissandolo negli occhi.
:- Scusami, questa sera il tempo è volato. Siete stati in apprensione per me?- chiese Febo, ravviandosi i capelli con le mani.
:- Cosa è accaduto? Sei strano - notò la madre preoccupata.
:- Nulla - rispose laconicamente il ragazzo - Papà dopo cena vorrei parlarti. -
:- D’accordo. Adesso, però, andiamo a tavola. -
Dopo cena, padre e figlio si ritirarono nello studio, mentre Ivana rassettava la cucina.
:- Qual è il problema? Ti ascolto - domandò pacatamente il padre.
Febo non riusciva a trovare le parole per raccontare quello che gli era capitato. Intrecciava le mani, tormentandosi le dita. Finalmente iniziò a parlare:- Oggi ho conosciuto una ragazza bellissima, intelligente, educata! Siamo andati a passeggiare nel parco. Chiacchierando con lei, ho provato emozioni indicibili. Quando la guardo sento il cuore battere forte nel petto. Non so se ci rivedremo,… ma lo vorrei tanto! -
:- Andiamo per ordine, ma prima calmati!- disse Giulio:- Dove l’hai conosciuta, quanti anni ha? -
Febo raccontò per filo e per segno di quella creatura meravigliosa e di quelle ore trascorse insieme. :- Mi ha ricordato che bisogna studiare. Mi è sembrata una scusa per non rivedermi, non so che fare!-
:- Sono certo che sia una brava ragazza, com’è innegabile che tu ne sia attratto. L’ansia di conoscerla meglio ti ha disorientato. Imparerai a controllarti e a pensare con più lucidità.
Per rivederla usa lo stesso pretesto che Milena ha portato come impedimento ad un nuovo incontro.-
:- Non capisco. Che intendi dire?- replicò Febo con aria interessata.
:- E’ semplice! Entrambi dovete affrontare gli esami: proponile di studiare con te! -
:- E se non accettasse?- obiettò il giovane.
:- In questo caso sarà chiaro che il tuo interesse non è ricambiato. Qualcosa, però, mi dice che lei accetterà - concluse il padre con aria divertita.
Febo era fortunato ad avere qualcuno con cui confidarsi e condividere le incertezze ed i timori dei suoi diciotto anni.
Il giorno seguente, durante l’intervallo, Milena cercava di scorgere Febo tra i numerosi studenti che affollavano i corridoi della scuola. Lo vide, sentendosi invadere da una gioia irrefrenabile. Osservava il suo profilo, i lineamenti marcati e discreti, le larghe spalle ed il corpo atletico. Febo le si accostò, dicendo:- Devo parlarti! Vediamoci alla fine delle lezioni. -
La ragazza, sorpresa, acconsentì.
:- Ho riflettuto sul nostro incontro e sulla difficoltà di frequentarci in questo periodo. Credo di aver trovato una soluzione. -
:- Quale?- domandò Milena.
:- Potremmo studiare insieme per gli esami. Che ne dici? -
Per qualche secondo lei stette a pensare, poi, osservò:- Nulla in contrario, ma riusciremo a studiare insieme? -
:- Perché no? - replicò Febo.
Milena, aperto il diario, propose:- D’accordo! Inizieremo da oggi con italiano e filosofia.
Ci incontreremo qui alle quattro. -
:- Va bene, alle quattro in punto! -
Quel giorno Febo pranzò frettolosamente, guardando continuamente l’orologio. Rivolgeva al padre sguardi pieni di complicità. :- Ce l’ho fatta! Studieremo insieme - esclamò ad un tratto.
:- Iniziamo da oggi. Alle quattro abbiamo appuntamento nei pressi del Liceo. -
:- Dove intendete studiare? - domandò la madre.
:- Potreste usare la sala, oppure lo studio - propose Giulio mentre aspirava, soddisfatto, il fumo di una sigaretta.
L’idea era piaciuta al ragazzo che, alzatosi, disse :- Sarebbe l’ideale! Ora devo andare. -
Prese le scale ed in un batter d’occhio si trovò sul luogo dell’incontro. I portici erano semideserti. Nubi grigiastre si rincorrevano e si accavallavano per il cielo, trascinate da un vento incessante. Milena non c’era. Febo guardò per l’ennesima volta l’ora: mancavano pochi minuti. Non era il caso di disperare.
In lontananza scorse una figura che gli veniva incontro: era lei.
:- Ciao! Sono in ritardo? -
:- No,… puntualissima!-
:- Che ventaccio! La biblioteca aprirà solo tra mezz’ora. Ripariamoci nell’androne. -
Febo la seguì interdetto. Nella semioscurità i due erano divenuti taciturni. Il ragazzo ruppe il silenzio:- Se ti sta bene si potrebbe andare a casa mia. Senz’altro staremo meglio. -
:- E se i tuoi s’infastidissero?-
:- Sono già al corrente che studieremo insieme. Quale migliore occasione avrebbero per controllarci? -
:- Allora andiamo!- concluse la ragazza sorridendo.
Il rumore dei loro passi si intercalava con il fragore dei tuoni lontani. Giulio li accolse sull’uscio e, preso il soprabito della ragazza, la fece accomodare nella sala. Le presentazioni furono brevi, poi i genitori del giovane discretamente uscirono dalla stanza. L’ambiente era sobrio, arredato con gusto. Il tinello occupava l’angolo più distante dalla portafinestra. Una lampada a stelo ravvivava i tenui colori della tappezzeria. Un tappeto persiano era adagiato sul pavimento di marmo che, rischiarato dal lampadario, rifletteva sulle pareti una luce opalescente. Pochi quadri ed alcuni ritratti disposti simmetricamente arricchivano la stanza.
Febo e Milena aprirono i libri d’italiano e filosofia, iniziando a lavorare di buona lena.
Si scambiavano pareri, discutevano sulle numerose dottrine filosofiche e riconfrontavano quello che avevano singolarmente elaborato.
Il nubifragio, giunto repentino e violento, andava perdendosi tra i monti, lasciando spazio al cielo tornato sereno. Ivana entrò nella sala con in mano un vassoio, lo depose sul tavolo e, zuccherando del tè ancora fumante, offrì loro dei biscotti fatti in casa. Si fermò a scambiare poche parole con Milena e ritornò in cucina, lasciando i ragazzi ai loro impegni.
:- Veramente squisiti! -
:- Mamma è una grande cuoca - osservò il giovane con orgoglio.
Ripresero da dove avevano interrotto, rinfrancati da quella pausa provvidenziale.
Il pendolo scandì le otto e la ragazza si alzò dalla sedia con aria preoccupata.
:- E’ tardi, a casa mi aspettano da un pezzo. Devo affrettarmi!-
:- Ti accompagno. Fuori è quasi buio!-
Salutarono Giulio ed Ivana dirigendosi verso la periferia. Correvano tenendosi per mano finché giunsero a destinazione.
:- A domani!- disse Febo, rivolgendosi a Milena che, dopo avergli sfiorato il viso con una mano, si allontanò velocemente verso un grande caseggiato.
Lui rimase a guardarla finché scomparve in uno dei tanti portoni. Soddisfatto, riprese la via del ritorno. :- Papà aveva ragione. Anche lei, forse, prova qualcosa nei miei confronti.- pensava, mentre camminava lentamente, ricordando la magica atmosfera di quel pomeriggio.






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